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Il Cilento da scoprire

Il Mondo da Scoprire - Episodio 2

Scendendo da Nord, è Paestum la porta d’ingresso del Cilento, paesaggio culturale di straordinario valore con testimonianze di insediamenti risalenti a 250.000 anni fa. Nei millenni, il Cilento – affacciato sulla costa tirrenica a sud di Napoli, tra il Golfo di Salerno e il Golfo di Policastro – è stato ininterrottamente abitato, prima dagli agricoltori del Neolitico e dalle comunità dell’Età del Bronzo e del Ferro, poi da Etruschi, colonizzatori greci, Lucani e Romani. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e il conseguente disfacimento politico e sociale, il Medioevo vide la rinascita dei centri abitati e delle vie di comunicazione. Il Cilento rappresenta un’area molto vasta che comprende il Parco Nazionale Cilento e Vallo di Diano, i siti archeologici di Paestum e Velia e la Certosa di Padula.

Il Cilento archeologico

Come spiega l’Unesco, il Parco Nazionale Cilento, una zona montuosa solcata da vallate in cui scorrono fiumi che scendono nel Mar Tirreno, e il Vallo di Diano, un vasto e fertile altopiano, sono un’area Riserva della Biosfera MAB dell’UNESCO dal 1997. La stessa zona è stata iscritta nella rete dei Geoparchi UNESCO nel 2010, grazie alla bellezza delle numerosissime grotte create dalla natura carsica del terreno, sia nell’entroterra sia sulla costa, e alla natura geologica delle rocce che costituiscono il “Flysch del Cilento”, caratterizzato da una fitta stratificazione delle rocce che capita assumano forme e colori particolari (flysch, voce dialettale della Svizzera tedesca – significa china scivolosa – è una successione di rocce sedimentarie clastiche, di origine sin-orogenetica costituita tipicamente da alternanze cicliche di livelli di arenaria e di argilla o marna).

Paestum, l’antica città greca di Poseidonia, fondata alla fine del VII secolo a.C. e dedicata a Poseidone, dio del mare, conserva ancora oggi alcuni eccezionali templi dorici. La città, che ebbe un grande sviluppo commerciale, fu fondata dai coloni di Sibari, provenienti dalla città sulla costa ionica della Calabria non dal mare ma per le vie ancestrali che attraversavano i crinali delle montagne. Velia, in greco Elea, nacque nel 540 a.C., quando una spedizione di coloni focesi, esuli dalla città di Focea (in Turchia), giunse sulla costa tirrenica della Lucania e sviluppò una città su un promontorio affacciato sul mare. La parte bassa della città fu in seguito abbandonata, mentre la parte alta fu abitata fino al Seicento. Nell’area dell’acropoli sono visibili i resti di un Tempio ionico, del teatro risalente al III secolo a.C. e delle Terme Adrianee (II secolo d.C.). Elea vide il fiorire di una scuola filosofica presocratica: la scuola eleatica. Parmenide ne fu il fondatore e Zenone fu il suo illustre discepolo. Entrambi nativi di Elea, sono considerati tra i maggiori filosofi greci, padri delle radici della razionalità occidentale. “Paestum e Velia fecero scelte differenti – spiega l’archeologa Daniela Ferrari –. Durante le Guerre Puniche scelse di schierarsi con la potenza nascente di Roma, e nell’88 a.C. diventò Municipio romano, ma mantenne sempre la sua identità culturale greca, al punto tale che Cicerone – e siamo nel I secolo a.C. – parla di Velia come di una città ancora greca per cultura e tradizioni”.

Come ricostruisce l’Unesco, la Certosa di San Lorenzo a Padula nell’altopiano di Vallo di Diano, è il più vasto complesso monastico dell’Italia Meridionale nonché uno dei più interessanti in Europa per magnificenza architettonica e copiosità di tesori artistici. I lavori di costruzione iniziarono nel 1306 e proseguirono, con ampliamenti e ristrutturazioni, fino al XIX secolo. Dell’impianto più antico restano nella Certosa pochi elementi: tra questi si ricordano lo splendido portone della chiesa datato al 1374 e le volte a crociera della chiesa stessa. Le trasformazioni più rilevanti risalgono alla metà del Cinquecento, dopo il Concilio di Trento. Seicenteschi sono gli interventi di doratura degli stucchi della chiesa, mentre gli affreschi e le trasformazioni d’uso di ambienti esistenti risalgono al Settecento. I Certosini lasciarono Padula nel 1807, durante il decennio francese del Regno di Napoli, allorché furono privati dei loro possedimenti nel Vallo, nel Cilento, nella Basilicata e nella Calabria. Le ricche suppellettili e tutto il patrimonio artistico e librario andarono quasi interamente dispersi e il monumento conobbe uno stato di precarietà e abbandono. Dichiarato monumento nazionale nel 1882, la Certosa è stata presa in consegna dalla Soprintendenza per i Beni architettonici di Salerno e nel 1982 sono cominciati i lavori di restauro.

“Il Cilento – sottolinea Ferrari – riveste un grande valore culturale in quanto da sempre crocevia di importanti rotte di commercio e delle vie di comunicazione tra il Mar Tirreno e il Mar Adriatico, ma anche luogo di interazione culturale e politica nella preistoria e nel medioevo. Paestum e Velia sono due siti in ottimo stato di conservazione. I loro scavi permettono di fare un viaggio quasi completo all’interno di un’antica città della Magna Grecia”.

La dieta mediterranea e i prodotti cilentani

Era il 1943 quando, sulle coste cilentane, insieme con gli alleati sbarcò anche il fisiologo Ancel Keys. Qui conobbe una popolazione longeva, caratterizzata dall’assenza di malattie metaboliche. Incuriosito, cominciò a studiarne stili di vita e abitudini alimentari. È così che nacque una delle diete più note e apprezzate, la dieta mediterranea, basata proprio sull’attività agricola del Cilento e, soprattutto, sui prodotti di questa terra. Frutta, verdura, legumi, cereali: complici il clima mite e la macchia mediterranea, nessun palato rimarrà deluso.

L’olio extravergine di oliva

Un paesaggio costeggiato da ulivi secolari: ecco il Cilento. Dal 1998 l’olio del Cilento ha ottenuto il marchio DOP, collegato a un rigido disciplinare di produzione. I comuni produttori sono 62, tutti sul territorio del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano. Spiega la Regione Campania: “L’olio Cilento DOP è il frutto dell'armonizzazione delle più moderne tecnologie di lavorazione con una tradizione millenaria. A livello agronomico, particolare cura è posta durante le fasi della raccolta, del trasporto e della conservazione delle olive. Per essere ammesse alla produzione di olio DOP le olive devono essere raccolte rigorosamente a mano; è autorizzato l'ausilio di mezzi agevolatori meccanici, come scuotitori e pettini vibranti; le reti sono ammesse esclusivamente per agevolare le operazioni di raccolta, che deve essere effettuata entro il 31 dicembre di ogni anno. La produzione massima di olive ad ettaro è di 110 quintali, mentre la resa in olio massima è del 22%. Le olive vanno molite entro 48 ore dalla raccolta”. “Si va dall’olio più corposo dell’entroterra – olio delle zone collinari, perfetto per i piatti di carne – all’olio di olive maturate affacciate al mare – olio leggero, adattissimo ai piatti a base di pesce della tradizione cilentana”, spiega Donatella Tardio, esperta del territorio.

Il pesce

Fondali profondi e pescosi, il mare del Cilento dona soprattutto pesce azzurro. Da segnalare l’alice di menaica, tutelata dalla Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus, pescata con un’antichissima tecnica che oggi sopravvive solo in poche zone del Mediterraneo: una di queste è il Cilento, in particolare a Marina di Pisciotta, un piccolo borgo sulla costa a metà strada tra Velia e Capo Palinuro. Spiega Slow Food: “Questa tecnica sopravvive grazie a un gruppo di pescatori – non più di sette, otto barche – che escono in mare la notte con barca e rete (entrambe si chiamano menaica o menaide, anticamente minaica). Le ‘alici di menaica’ si pescano nelle giornate di mare calmo, tra aprile e luglio: si esce all’imbrunire e si stende la rete sbarrando il loro percorso al largo. La rete le seleziona in base alla dimensione, catturando le più grandi e lasciando passare le piccoline. Con la forza delle braccia si tira in barca la rete e, delicatamente, si estraggono dalle maglie, una a una, staccando la testa ed eliminando le interiora. Poi si sistemano in cassette di legno e – fatto molto importante – non si utilizzano né il ghiaccio né altri tipi di refrigerante per il trasporto. Le alici vanno lavorate immediatamente: prima si lavano in salamoia e poi si dispongono in vasetti di terracotta, alternate a strati di sale. Quindi inizia la stagionatura, che avviene nei cosiddetti magazzeni, locali freschi e umidi dove un tempo, prima che nascesse il porto, si ricoveravano anche le barche. Qui le alici devono maturare, ma senza asciugare troppo, almeno tre mesi. Le alici di menaica sotto sale si distinguono per la carne chiara che tende al rosa e per il profumo intenso e delicato, che le rende assolutamente uniche. Si mangiano fresche o sotto sale, crude o cotte”.

I vini

“Un territorio dal clima mite non può non avere anche produzione di vini – sottolinea Donatella Tardio –. Il Cilento è stata la terra degli Enotri, popolazione indigena produttrice di vino: la tradizione è arrivata sino a noi con delle aziende vitivinicole che negli ultimi anni stanno trovando sempre maggiore sviluppo”. Si parla soprattutto di Fiano, un vino bianco adatto ai piatti a base di pesce e Aglianico, rosso e corposo, per i piatti a base di carne. Due denominazioni enologiche della Regione Campania provengono dal Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano. Si tratta della DOC Castel San Lorenzo e della DOC Cilento (la denominazione comprende vini rossi, bianchi e rosati, oltre a un Aglianico in purezza, prodotti sulle colline costiere della parte meridionale della provincia), prodotte dalla combinazione delle uve tradizionali con quelle più specificamente locali.

I formaggi

Quando si parla di formaggi cilentani non c’è che l’imbarazzo della scelta. Dalla deliziosa mozzarella di bufala campana della Piana del Sele, alle porte del Cilento, fino ai formaggi caprini – tra i quali spicca il cacioricotta di capra, realizzato con il latte delle capre al pascolo sulla costa – e al caciocavallo podolico prodotto dal latte delle mucche allo stato brado delle montagne cilentane. “Punta di diamante – spiega Tardio – la mozzarella nella mortella, treccina di mozzarella chiusa in foglie di mirto che le conferiscono sapore e profumi particolari”. Come spiega Slowfood, “Si chiama mozzarella, in realtà è un caciocavallo freschissimo. Un tempo non esistevano frigoriferi e non si usavano incarti, ma in tutto il Cilento era molto diffusa la mortella (nome locale del mirto), una pianta con foglie lisce e non porose, perfetta per confezionare il formaggio fresco. Si vendevano i cosiddetti ‘mazzi di mozzarelle’: dentro ogni mazzo (di circa 100 grammi) c’erano dieci lingue di formaggio. La mortella funge egregiamente da copertura naturale e allo stesso tempo trasferisce alla pasta aromi e profumi molto particolari. La mozzarella nella mortella, con il tempo, è diventata un prodotto a sé stante, una tipologia particolare tra le molte paste filate meridionali”.

Il fico bianco

“Il fico bianco del Cilento è un prodotto DOP del nostro territorio – spiega Tardio –. Un prodotto di nicchia, molto apprezzato anche all’estero”. La Denominazione geografica protetta “Fico bianco del Cilento” è riferita al prodotto essiccato della cultivar “Dottato”, pregiata varietà di fico diffusa in tutto il Mezzogiorno. In particolare, il prodotto tutelato è quello derivato da uno specifico ecotipo della cultivar Dottato, che si è andato selezionando e diffondendo nel Cilento nel corso dei secoli: il “Bianco del Cilento”. Una preparazione tradizionale ancora in uso è quella che vede i fichi “steccati”, infilati cioè in due stecche di legno parallele per formare le “spatole” o “mustaccioli”. Il Fico Bianco del Cilento DOP è venduto anche farcito con mandorle, noci, nocciole, semi di finocchietto, bucce di agrumi (ingredienti provenienti dallo stesso territorio di produzione), ricoperto di cioccolato, immerso nel rum, con l’obiettivo di ampliare la gamma dell’offerta, soprattutto nel periodo natalizio. Sempre più ricercati sono anche i fichi essiccati e poi dorati al forno, soprattutto quelli farciti. Pregiati, ma sempre più rari per gli alti costi di preparazione, sono i fichi mondi, senza buccia, dal colore chiarissimo tendente al bianco puro e dal sapore prelibato.

Il carciofo

Il carciofo di Paestum è un prodotto IGP. Elemento chiave della dieta mediterranea, noto anche come “Tondo di Paestum”, fa parte del gruppo dei carciofi di tipo “Romanesco”. Capolini rotondeggianti, elevata compattezza, assenza di spine nelle brattee (le foglie che si mangiano) sono le sue principali caratteristiche. Scrive la Regione Campania: “Anche il carattere di precocità di maturazione può essere considerato un elemento di positività conferitogli dall'ambiente di coltivazione, la Piana del Sele, che consente al Carciofo di Paestum di essere presente sul mercato prima di ogni altro carciofo di tipo Romanesco”. Il clima fresco e piovoso nel corso del lungo periodo di produzione (febbraio-maggio), che caratterizza tale area, conferisce anche la tipica ed apprezzata tenerezza e delicatezza al prodotto. Le sue caratteristiche di pregio gli consentono di essere molto apprezzato in cucina, dove viene utilizzato nella preparazione di svariate ricette tipiche e di piatti locali come la pizza con i carciofini, la crema e il pasticcio ai carciofi, particolarmente graditi ai tanti turisti che visitano la Piana del Sele e in particolare i Templi di Paestum.

Il mare e le spiagge del Cilento

Sono 13 le Bandiere blu assegnate quest’anno alle spiagge cilentane, cento chilometri che, scendendo, cominciano a Paestum e finiscono a Sapri, quando sul confine con Maratea inizia il territorio lucano. Perché, se l’entroterra, come abbiamo visto, è ricchissimo, il Cilento rimane nel cuore soprattutto per le sue spiagge incontaminate e la sua acqua cristallina. Si parte da un territorio con spiaggia dunale – siamo in zona Paestum –, dove è possibile ammirare anche un bellissimo giglio marino che, tutte le sere d’estate, fa innamorare cilentani e turisti con il suo inebriante profumo e i suoi vistosi fiori bianchi (si tratta di una specie rara, a causa della rarefazione del suo habitat). Pochi chilometri e si arriva a un panorama completamente diverso: il promontorio di Agropoli (Bandiera blu), seguito da un alternarsi di promontori e piccole calette davanti a un mare cristallino.

Subito dopo si apre l’area marina protetta Santa Maria di Castellabate, una fascia di mare compresa tra le punte di Tresino e di Licosa. Diverse specie animali popolano questa zona marina, alcune anche molto rare, come il pesce pappagallo mediterraneo e la Syriella castellabatensis (un crostaceo che prende il nome dalla zona scoperto il 1975), ma anche madrepore, gorgonie, ricci di mare, briozoi e spugne. Nella zona di Licosa è presente una bioconcrezione formata da vermetidi simile alle barriere coralline tropicali, una delle poche specie del Mediterraneo che formano biocostruzioni superficiali. Ci sono anche colonie di nacchere, un mollusco bivalve protetto, inserito nella lista rossa della direttiva europea Habitat.

Rotolando verso sud (come direbbero i Negrita) si attraversano panorami diversi e mozzafiato, fino ad arrivare alle due perle della costa cilentana: Palinuro e Marina di Camerota.
Palinuro si estende sulla piccola penisola dell’omonimo promontorio, Capo Palinuro, rinomato per la bellezza paesaggistica, le sue emergenze naturalistiche e per la presenza di grotte sia emerse, visitabili in barca, che sottomarine, raggiungibili solo in immersione. Tra le più belle, la Grotta Azzurra: prende il nome dal colore azzurro dell’acqua, che assume sfumature diverse durante la giornata in base all’intensità della luce che entra nel canale, profondo circa 20 metri. Oltre ai riflessi e ai bagliori di luci in superficie la grotta ospita un’incontaminata fauna marina legata alla risalita delle acque idrotermali di tipo sulfureo. È una meta molto apprezzata anche per la sua parte subacquea. Qui fiorisce anche la Primula palinuri, il fiore simbolo del Parco nazionale: è un raro esemplare di primula di colore giallo con l’interno bianco ed è costituita da un mazzolino di piccoli fiori con petali vellutati, tutti sostenuti da un solo stelo. È una specie protetta: la si può incontrare nelle località di mare, su tratti calcarei, lungo il Tirreno. È presente nel tratto di costa che parte da Palinuro, attraversa Marina di Camerota, tocca la Basilicata (Maratea) e raggiunge anche il cosiddetto Alto Tirreno Cosentino, tratto calabrese (Scalea e Praia a Mare).

Dopo Capo Palinuro, dopo la Baia del Buondormire – spiaggia dorata, acqua trasparente: non per niente è chiamata ‘I Caraibi del Cilento’ –, si giunge all’area marina protetta Costa degli Infreschi e della Masseta: tante le grotte sommerse, tra le quali spicca la Grotta dell’Alabastro. Imperdibile Cala Bianca, eletta nel 2013 Spiaggia più bella d’Italia. Deve il suo nome al colore bianco dei ciottoli dell’arenile. I ciottoli bianchi donano uno spettacolo unico per chi osserva la spiaggia da mare, o giunge via terra tramite il sentiero degli Infreschi. La spiaggia è formata per lo più, come detto, da piccoli ciottoli bianchi, più grandi verso l’interno, sempre più piccoli, diventando quasi sabbia man mano che si ci avvicina alla riva. Il mare di Cala Bianca è cristallino e molto profondo e regala una vista meravigliosa per gli amanti dello snorkeling.

Il Golfo di Policastro chiude la costa cilentana, con centri come Villammare, Policastro Bussentino, Scario e giù sino a Sapri. Le origini di Sapri sono molto antiche, come attestano alcuni insediamenti dell’età del Bronzo scoperti poco lontano dall’abitato. In età romana la baia ed il suo entroterra rivestirono una grande importanza, sia come località di soggiorno sia come porto commerciale.

Cicerone, che ne era un frequentatore entusiasta, la definì Parva gemma maris inferi, piccola gemma del mare del sud. Nel I sec. d.C., lungo l’estremità occidentale della baia, fu costruita un’imponente villa patrizia, poi ampliata in età imperiale. Agli inizi del ‘900, nelle vicinanze della Villa fu ritrovato un Cippo Funebre del I secolo d.C. Altri resti di fattorie e strade romane affiorarono lungo i rilievi alle spalle della baia. Sulla spiaggia di Brizzi, il 28 di giugno del 1857, sbarcò Carlo Pisacane. Sapri non ha dimenticato lo sfortunato eroe risorgimentale: alla sua impresa, conclusasi con un eccidio nel Vallone di Sanza, è legata la poesia di Luigi Mercantini “La Spigolatrice di Sapri”. Ma la spedizione pisacaniana è ricordata anche da un obelisco eretto nel primo centenario a Largo dei Trecento, da una statua dell’eroe posta nel 1933 nella Villa Comunale e da una statua molto suggestiva che raffigura la Spigolatrige adagiata sulla scoglio dello Scialandro, mentre volge lo sguardo nel punto della baia di Sapri dove i trecento sbarcarono.

Sapri chiude il Cilento e la Campania, mentre si apre la porta verso Maratea e la Basilicata.

Ascolta il podcast Robintur dedicato al Cilento.

 

Giugno 2020

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