Il Mondo da Scoprire - Episodio 6
Sicilia, la più grande isola del Mediterraneo. Tremila anni di storia e tante dominazioni diverse, di cui ritroviamo preziose tracce: i greci, i romani, gli arabi, i normanni, i francesi, gli spagnoli.
Leonardo Sciascia scriveva: trovo che la vera dimensione dei siciliani sia il barocco, anche nell’animo. In Sicilia il barocco è ovunque, è una condizione dell’anima: è la sostanza, il volto di una terra in cui tutto è abbondanza, eccesso, ricchezza, luce. Il barocco è nell’arte, nella musica, nella gastronomia, nella letteratura, nella sensibilità stessa dei siciliani, proprio perché sono il frutto di così tante culture e civiltà diverse.
Il terremoto del Val di Noto del 1693
Non tutti sanno che fu un evento catastrofico, il terremoto – a cui seguì un maremoto – dell’11 gennaio 1693, a determinare per sempre il nuovo volto barocco della Sicilia sud orientale. Un terremoto devastante che fece quasi 100 mila vittime, che rase al suolo Noto e danneggiò gravemente Catania, Ragusa, Modica, dando avvio a una imponente opera di ricostruzione. Con una magnitudo pari a 7,7 è considerato il terremoto più forte mai registrato in territorio italiano. Risulta inoltre essere il ventitreesimo terremoto più disastroso della storia dell’umanità, almeno tra quelli storicamente accertati.
Su questo tragico episodio è incentrata la leggenda di don Arcaloro, secondo la quale la mattina del 10 gennaio 1693 una strega disse al barone Arcaloro Scamaccache che il giorno dopo Catania avrebbe “ballato senza musica”, ovvero che aveva sognato Sant’Agata – patrona di Catania –, la quale aveva tentato di implorare il Signore di salvare la città dal terremoto. Tuttavia Gesù aveva negato la grazia per punire i peccati dei catanesi. Don Arcaloro si rifugiò allora nella sua residenza di campagna, salvandosi.
Un’altra leggenda è quella che vede protagonista Francesco Antonio Carafa, vescovo di Catania dal 1687 al 1692, che grazie alle sue preghiere avrebbe salvato Catania dal terremoto per due volte. Purtroppo, proprio dopo la sua morte avvenuta nel 1692, nulla poté per evitare il terremoto dell’anno seguente, come riportato dall’iscrizione scolpita sulla sua tomba nel Duomo di Catania:
“Don Francesco Carafa, già Arcivescovo di Lanciano poi Vescovo di Catania, vigilantissimo, pio, sapiente, umilissimo, padre dei poveri, pastore così amante delle sue pecorelle, che poté allontanare da Catania due sventure da parte dell’Etna, prima del terremoto del 1693. Dopo di che morì. Giace in questo luogo. Fosse vissuto ancora, così non sarebbe caduta Catania”.
Ma le leggende non finiscono qui. Due riguardano Vittoria, nel Ragusano. La prima riguarda la vecchia chiesa madre di San Giovanni Battista che rimase distrutta nel terremoto. All’interno, la statua del Santo venne ritrovata decapitata tra le macerie. Secondo la tradizione popolare, il Santo protesse la città dal sisma “offrendo Chiesa e Capo all’Altissimo, per liberare la sua diletta Vittoria”. Un’altra parla invece di un’urna in cui i cittadini misero i nomi di tutti i Santi che si veneravano in quella zona. Si narra che il nome di San Giovanni Battista uscì tre volte, perciò fu nominato patrono della città. Ogni anno, per ricordare l’evento – che a Vittoria costò la vita a 40 bambini – e tutte le vittime del Val di Noto si celebra la Festa di San Giovanni di gennaio.
Infine, Naro, città dell’Agrigentino preservata dal terremoto. In questa salvezza la popolazione riconobbe la palese protezione del suo patrono San Calogero. Ogni anno si ricorda questo evento con una processione proprio l’11 gennaio.
La ricostruzione barocca
Edifici di pietra baciati dal sole, luce che gioca sulle superfici scolpite, nicchie, colonne sinuose lanciate verso l’alto. Il barocco siciliano è fusione tra terra e cielo: il bianco e l’ocra intenso delle chiese e dei palazzi e il blu dello sfondo si mescolano tra di loro in un insieme unico e affascinante. Camminare per le vie di Noto, Modica e Ragusa e trovarsi a tu per tu con le forme delineate e imponenti del grande barocco di Sicilia è un’esperienza che difficilmente si può raccontare a parole. Come detto, dopo il terremoto prese il via un’imponente opera di ricostruzione: sotto la guida del duca di Camastra, sorsero nuove città con impianti urbanistici dalle straordinarie conclusioni scenografiche. Palazzi fastosi e chiese di straordinario virtuosismo architettonico si elevarono là dove la terra aveva inghiottito la vita.
Oggi il barocco è uno stile molto presente nella stupenda Val di Noto e nella trama degli stili architettonici della Sicilia intera. È innegabile che proprio in quest’angolo di Sicilia si gusti pienamente il calore e il colore che il sole, con la modulazione chiaroscura della sua imperiosa luce, imprime sulle facciate degli edifici barocchi. A Noto con la cattedrale, la chiesa di San Domenico, la chiesa di San Borromeo al Corso, il palazzo Nicolaci di Villadorata. A Ragusa con la Chiesa di San Giorgio, Palazzo Zacco, la Cattedrale di San Giovanni Battista. A Catania con il Duomo e la piazza dominata dal Palazzo Vescovile, dal Seminario dei Chierici, dal Palazzo degli Elefanti. A Scicli con il Palazzo Beneventano. A Modica con il Duomo di San Giorgio e la sua incredibile scalinata (ma l’elenco potrebbe continuare, tanto è lunga la lista di questi capolavori senza tempo). Qui si respira il carattere spagnolo della Sicilia: passionale e forte, rigoroso e razionale, ritmico e sfuggente, ricco e corposo. Putti, mascheroni, volti grotteschi sostengono elegantissime balconate sui palazzi nobiliari, geometrie mistilinee si sfidano sulle facciate ricurve delle chiese, colonne tortili si avvitano verso l’alto in un anelito antigravitazionale, campanili arditi si esibiscono come monili al mondo. Per non parlare degli interni: marmi mischi, stucchi, affreschi, tarsie marmoree e sculture arredano le navate delle cattedrali e gli interni dei palazzi nobiliari, e invitano lo sguardo ad indugiare sui preziosi dettagli e ad inseguire prospettive che si rincorrono senza mai ripetersi.
Da non perdere la Chiesa di San Francesco di Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, nata in stile arabo-normanno e trasformata successivamente in stile barocco. La vediamo in tutto il suo splendore grazie ad un restauro cominciato nel 1977 per riparare i danni subiti durante il terremoto del Belice (1968).
A Palermo un autentico interprete del barocco più raffinato ed elegante è stato senza dubbio Giacomo Serpotta, scultore e decoratore reso celebre dai suoi stucchi per i quali elaborò la tecnica rivoluzionaria della ‘allustratura’ che condivise con il fratello Giuseppe e il figlio Procopio. Le sue opere più pregiate sono l’Oratorio di Santa Cita e quello del Rosario, la Chiesa di San Domenico e la Chiesa di San Francesco d’Assisi. I fratelli Giuseppe e Giacomo Serpotta decorarono anche la piccola Cappella Palatina nel Castello dei Ventimiglia a Castelbuono, vicino Palermo.
Le città barocche del Val di Noto, dal 2002, sono Patrimonio Unesco.
La letteratura siciliana e gli itinerari degli scrittori
Crocevia di culture, anche la letteratura, così variegata e molteplice, prolissa e barocca, non può dirsi “siciliana” ma europea.
Tra i più noti esponenti, Giovanni Verga, scrittore conteso fra Vizzini, dove pare sia nato e che ricorre nelle sue opere e nelle sue fotografie, e Catania, dove fu ufficialmente registrato e dove si trova la casa dei suoi soggiorni catanesi. Come spiega il sito del turismo della regione, il grande scrittore, padre del Verismo, reinventò l’italiano con il sapore del dialetto: una lingua che si anima, vive, gioisce e soffre insieme ai suoi personaggi. “Mastro don Gesualdo”, soggetto della prima grande fiction italiana del regista Giacomo Vaccari; “I Malavoglia”, portato sullo schermo da Luchino Visconti ne “La Terra Trema”, ambientato nel borgo di Acitrezza; la novella “Cavalleria Rusticana” poi resa in musica dal compositore Pietro Mascagni, che fece conoscere Verga e l’opera lirica italiana in tutto il mondo.
In provincia di Messina, a Roccalumera, troviamo i luoghi di vita di Salvatore Quasimodo, poeta esponente dell’ermetismo europeo, che condensa nei suoi versi il tema della solitudine esistenziale e dell’esilio dalla terra natia, in cui l’isola diviene l’emblema della felicità perduta. A Modica, in provincia di Ragusa, è visitabile la casa natale e la cosiddetta Stanza della Poesia, un tempo sede della potente Contea dei Cabrera.
Nella sonnolenta e regale capitale Palermo troviamo un universo a sé: musulmana, cosmopolita, della corte di Federico II, vicereame di Spagna, anarchica e contraddittoria, splendida di bellezza e antica opulenza tanto che tutte le famiglie nobili di Sicilia volevano risiedervi. Tra queste, la famiglia di don Giuseppe Tomasi, 12º duca di Palma, 11º principe di Lampedusa, barone della Torretta, Grande di Spagna di prima Classe, ne rappresenta quasi un simbolo: il suo “Gattopardo”, reso famoso anche dalla trasposizione cinematografica di Luchino Visconti, racconta le vicende della famiglia del Principe di Salina durante lo sbarco dell’esercito di Garibaldi.
Un altro padre della letteratura isolana giace in uno splendido luogo dell’entroterra siciliano, la Valle dei Templi di Agrigento: Luigi Pirandello, figura enorme e poliedrica. Compose 250 Novelle, opere teatrali che hanno caratterizzato il teatro italiano ed europeo del ‘900 come “Sei personaggi in cerca di autore”. I protagonisti dei suoi romanzi come “Il fu Mattia Pascal” e “Uno, nessuno e centomila”, sono maschere tragiche con il sentimento del contrario che possono suscitare ilarità, ma anche profonda malinconia. Nel 1934, vinse il Premio Nobel per la letteratura.
Restando nel cuore geografico della Sicilia impossibile non citare Leonardo Sciascia da Racalmuto (provincia di Agrigento), autore di grande coscienza e consapevolezza civile. Le sue sagaci opere di denuncia, neppure troppo sottile, di “Todo Modo” e de “Il giorno della Civetta”, fanno parte dell’immaginario letterario e cinematografico dello stesso clima che ha prodotto lo scrittore Andrea Camilleri, siciliano di Porto Empedocle, provincia di Agrigento. In che modo? Innanzitutto per l’esaltazione del saporoso polimorfico crogiolo dell’idioma siciliano, per gli ambienti e per i personaggi che dipingono quadretti fuori dal tempo, ma con uno spazio ormai ben definito dalla trasposizione filmica, come nel caso del suo personaggio più famoso, il mitico Commissario Montalbano.
Un originale romanzo quasi geografico è “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini, nativo di Siracusa: un viaggio in treno che attraversa l’Italia da Nord a Sud. In particolare descrive minutamente anche luoghi e stazioni che si incontrano tra Messina e Siracusa. Questo suo espediente letterario, oltre a ricordarci l’infanzia dello scrittore, figlio di un ferroviere, che spesso seguiva il padre nei suoi viaggi in treno, introduce il tema del viaggio. Per lo scrittore “Viaggiare non è solo un’occasione per registrare nuove sensazioni, ma il tramite per recuperare una dimensione umana ovvero per recuperare la propria identità”.
Per promuovere questa forma speciale di scoperta, la Sicilia ha dato vita a una fitta rete di Parchi letterari, itinerari geografici ma anche fittizi ispirati dai luoghi che poeti e scrittori hanno vissuto o hanno fatto vivere nelle loro opere. Tra i parchi più belli, il Parco letterario Luigi Pirandello, che si snoda tra Porto Empedocle e Agrigento; il Parco letterario Leonardo Sciascia, tra Racalmuto e Caltanissetta; il Parco letterario Salvatore Quasimodo, con al centro Roccalumera e Modica; il Parco letterario Giovanni Verga, tra Vizzini e la Riviera dei Ciclopi, in provincia di Catania; il Parco letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa tra Palermo, Santa Margherita di Belice e Palma di Montechiaro; il Parco letterario Elio Vittorini, concentrato nella siracusana Isola di Ortigia. Ascolta il nostro podcast per scoprire tutto sui parchi letterari sull’isola.
La Sicilia sul grande e sul piccolo schermo
Del commissario Montalbano e del colossal “Il Gattopardo” parliamo ampiamente nel nostro podcast. Ma sono tanti, tantissimi, i film che hanno come scenografie le infinite sfumature dell’isola. Per esempio, c’è la Bagheria di Giuseppe Tornatore, sua città natale, sfondo sia di “Nuovo Cinema Paradiso” sia dell’omonimo “Baarìa”. Il regista scelse Ragusa per “L’uomo delle stelle”, le saline di Marsala per “Stanno tutti bene”, Siracusa per “Malena”. Cinisi è la protagonista de “I Cento Passi” di Marco Giordana, lungometraggio dedicato alla storia di Peppino Impastato; Cefalù divenne il set de “Il regista di matrimoni” di Marco Bellocchio.
E poi la Linosa di “Terraferma”, diretto da Emanuele Crialese; mentre “Il giorno della civetta” di Damiano Damiani, tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, venne girato tra Partinico e Palermo. Per “Il Padrino”, nel 1972 Francis Ford Coppola girò alcune scene tra Savoca e Forza d’Agrò, borghi collinari in provincia di Messina. Nel secondo capitolo della saga, le scene del passato di Vito Corleone ambientate, nella finzione, nel comune di Corleone furono girate ancora a Forza d’Agrò, Savoca e Motta Camastra, in provincia di Messina e ad Acireale. E veniamo al terzo e ultimo capitolo: quando i protagonisti arrivano in Sicilia, la scena si apre con una visuale dal viale alberato che conduce al Tempio di Segesta. In realtà nel film il luogo viene individuato, con una scritta in sovrimpressione, nella città di Bagheria. Anche questa volta, le scene ambientate a Corleone furono girate a Forza d’Agrò, Savoca e Motta Camastra. La scena durante la quale Mosca e Spara uccidono Don Tommasino è stata girata a Nunziata, una frazione del comune di Mascali, nei pressi della chiesa della Madonna del Carmine. Altre scene vennero girate nel Castello degli Schiavi (Fiumefreddo di Sicilia) e nel Castello Scammacca (Acireale) in provincia di Catania. La Villa più volte ripresa dove i Corleone alloggiano in Sicilia, invece, è Villa Whitaker a Palermo.
Sicilia, paradiso dei buongustai
L’Arancia Rossa, il Ficodindia dell’Etna e il Ficodindia di San Cono, il Pomodoro di Pachino, il Pistacchio di Bronte, la mandorla di Avola. Il cioccolato di Modica, la pasta alla norma, la cassata, i cannoli, le panelle. Impossibile scindere il concetto di viaggio in Sicilia da quello di viaggio nel gusto. Il melting pot di culture ha portato con sé un fertile mix pot di sapori, profumi, odori e ingredienti. Sicilia, amante dello street food di araba tradizione. Sicilia, capace di mescolare le tradizioni popolari e i palati raffinati dei francesi (i monsù siciliani, dal francese monsieur: per tutti questi dettagli, ascoltate la voce di Mara Sciuto nel nostro podcast). Come sempre capita nelle ricchissime regioni italiane, è impossibile azzardare un quadro anche solo vagamente completo delle specialità enogastronomiche di questa terra: noi lanceremo solo qualche spunto. La vera scoperta è possibile solo dal vivo.
Il pane con la milza o ‘u pani c’a meusa è uno dei protagonisti del cibo da strada siciliano. Ottimo per pranzo o cena, è spesso servito nei buffet in formato mignon. L’origine di questo cibo sembra risalire al Medioevo, quando gli ebrei che vivevano a Palermo lavoravano come macellai. Poiché le loro credenze religiose impedivano di trarre guadagni dalla macellazione degli animali furono autorizzati a portare a casa le frattaglie come ricompensa. Usavano, quindi, bollire e insaporire la milza, il polmone e lo scannarozzato (la trachea) nello strutto che, insieme al formaggio, servivano da farcitura ai panini che vendevano alla gente del luogo. Questa tradizione è ancora viva tra i caciottari palermitani e molti altri rivenditori di prodotti alimentari. A Palermo, la sera precedente la festa dell’Immacolata (il 7 dicembre) ‘u pani c’a meusa è un must. È tradizione consumarlo anche la mattina della festa, come colazione ipercalorica.
Arancino o arancina? Il dilemma non è semplice e coinvolge da secoli fior di linguisti, appassionati cuochi e semplici golosi. Quel che mette tutti d’accordo è la bontà di questo simbolo dello street food siciliano. Croccante al punto giusto, con la sua farcitura bollente, non concede esitazioni ad alcun palato. Al nord Italia li chiamano arancini, al maschile, come riporta anche lo scrittore Andrea Camilleri nel suo romanzo “Gli arancini di Montalbano”. In effetti il commissario di Vigata ne è goloso, soprattutto se li prepara la fidata Adelina. Secondo alcuni, è giusto arancina perché il nome deriva dalla forma di questa palla di riso impanata e fritta, che ricorda l’arancia. Però in dialetto siciliano l’arancia è al maschile, arànciu, e il dubbio rimane. Salomonicamente, l’isola si è divisa in due: Sicilia occidentale: arancina, Sicilia orientale: arancino. La sua storia è antichissima, di origine alto-medievale o araba, vista la presenza dello zafferano. Si racconta che un siciliano illustre d’adozione abbia pensato alla panatura come semplice ma geniale tecnica per conservare il prelibato riso e trasportarlo a lungo durante le battute di caccia e le missioni diplomatiche: Federico II di Svevia, innamorato di Palermo, costretto a guerre e viaggi per tutta la Cristianità, viaggiava proprio con i fedeli arancini croccanti al seguito. Di sicuro rivendicare la loro paternità è prendersi un rischio, visto che ogni singola città di Sicilia sostiene di esserne l’artefice. A Catania, ad esempio, si è sicuri di aver dato i natali a questa bontà, visto che il cono appuntito verso l’alto, così diverso da un suo lontano cugino (il supplì romano) ricorderebbe l’Etna. A Palermo e in altre zone il giorno dell’arancina è il 13 dicembre, festa di Santa Lucia, insieme alla cuccìa, il dolce di grano bollito e ricotta di pecora.
Il rito della granita siciliana con i suoi tempi lenti, la qualità degli ingredienti e la varietà dei sapori, riflette la cultura e la storia della Sicilia. Questa antica tradizione dolciaria affonda le sue radici nel Medioevo, quando i nivaroli d’inverno raccoglievano la neve sull’Etna, sui monti Peloritani, Iblei o Nebrodi, e tutto l’anno, la conservavano nelle neviere (buche rivestite di pietra o mattoni) per poi trasportarla fino in riva al mare nei mesi più caldi. La neve veniva grattata e utilizzata, insieme a spremute di limone o sciroppi di frutta, nella preparazione di gustosi e rinfrescanti sorbetti e gelati da assaporare in estate. La rattata (grattata) si è evoluta nel tempo, e la neve, poi utilizzata solo come refrigerante, è stata sostituita dall’acqua e il miele con lo zucchero, rendendo il composto deliziosamente cremoso. Quello della granita è un vero e proprio rito: non solo in estate ma tutto l’anno, a colazione, a pranzo, nel pomeriggio, o anche a cena, la granita si accompagna con una brioche calda (meglio se una brioscia col tuppo), o come un tempo, con un fragrante panino appena sfornato.
Per la deliziosa frutta Martorana vi rimandiamo al nostro podcast: la leggenda dietro questi piccoli capolavori dolciari merita di essere ascoltata dalle appassionate parole della nostra guida Mara Sciuto.
Il vino in Sicilia
Sono 17 le Strade del vino che attraversano la Sicilia, dal mare verso la collina e intorno al vulcano. Tra Passiti, Moscati e Malvasie, Nerello mascalese, Zibibbo, Inzolia, e altri ancora, quest’isola riesce a fare innamorare anche i palati più esigenti.
Antichi reperti archeologici testimoniano che la Sicilia è stata una delle prime regioni italiane a conoscere l’arte dell’enologia. In passato il vino siciliano era utilizzato per lo più come corpo per produrre vini più attraenti e sofisticati. Fino agli anni cinquanta, le nostre cantine sociali esportavano il vino siciliano verso la Francia e il nord Italia, per aumentare la gradazione alcolica e bilanciare il colore dei vini più rinomati. Ma recentemente, grazie ad appassionati produttori impegnati con coraggio a innovare la qualità delle vigne dell’isola, il vino siciliano ha iniziato a ricoprire un ruolo di prim’ordine nel panorama internazionale. Rossi, bianchi, rosati, vini liquorosi e spumanti, derivanti dalla coltivazione di vitigni autoctoni. Dallo Zibibbo, il più antico, importato dai fenici a Pantelleria, al Nero d’Avola, passando per il Nerello Mascalese, il Nerello Cappuccio, il Carricante, il Catarratto, il Grillo, il Frappato, il Perricone e l’Inzolia. L’unica DOCG è il Cerasuolo di Vittoria, prodotto nella zona di Ragusa, con i vitigni Nero D’Avola e Frappato.
Nelle provincie di Trapani e Palermo si producono i tre vini DOC Alcamo, Marsala e Contessa Entellina. Il Marsala, il vino liquoroso tra i più noti e primo vino DOC della storia vinicola italiana, è prodotto in tutta la provincia di Trapani, ad eccezione dei comuni di Pantelleria, Alcamo e Favignana, che hanno già i propri vini autoctoni
Citiamo anche il Favinia le Sciabiche, un vino antico, caratteristico dell’isola di Favignana, che è tornato sulle tavole dopo più di un secolo ad opera di viticoltori coraggiosi e orgogliosi della loro terra baciata dal sole e dai venti.
È doveroso citare anche la zona di Messina con ben tre DOC: Faro, Mamertino e la famosissima Malvasia delle Lipari. Proprio Lipari, l’isola maggiore dell’arcipelago delle Eolie, ha dato il nome a questo vino dal colore giallo dorato e un odore gradevolmente aromatico.
Ascolta il podcast Robintur dedicato alla Sicilia.
Agosto 2020
il mondo secondo robintur
Città che rimangono nel cuore, panorami indimenticabili, esperienze imperdibili: leggi e lasciati ispirare.