Il Mondo da Scoprire - Episodio 9
Gettando uno sguardo veloce a Wikipedia, si scopre che sono 565 le pagine dedicate ai film ambientati a Napoli. Cinquecentosessantacinque tra cui i capolavori di Totò, il Bud Spencer nella quadrilogia di Piedone, la “Napoli Milionaria!” di Eduardo De Filippo, i tre “Miseria e nobiltà”, fino ai più recenti “Gomorra”, “Lo chiamavano Jeeg Robot”, “Napoli velata”. Perché, diciamocelo, Napoli è un set a cielo aperto, disteso tra il Vesuvio e i Campi Flegrei, affacciato sulle tre perle del suo golfo: Capri, Ischia e Procida. Terza città italiana per grandezza dopo Roma e Milano, è il risultato di più di duemila anni di storia. Illuminata e decadente, sguaiata e accogliente, colta e popolare: Napoli è la città delle contraddizioni.
Le mille anime di Napoli
Napoli, con il suo bellissimo affaccio sul mare, è la città con il centro storico più grande d’Europa, patrimonio Unesco dal 1995. Vanta un vastissimo patrimonio culturale e artistico, ma è anche famosa per la sua teatralità e il suo folklore.
Il centro storico è pieno zeppo di chiese, monumenti e storia, oltre che ristoranti, pizzerie, artigiani, botteghe tipiche e locali per la sera. Cosa c’è da vedere nel centro storico? Tutto. Dai vicoli, stretti e intrecciati ai presepi di San Gregorio Armeno; dall’ospedale delle bambole – un laboratorio-ambulatorio dove si riparano bambole, statuine, peluches e oggetti che hanno avuto valore nella vita di qualcuno, per restituirgli la memoria dei tempi più belli che l’oggetto gli ha donato – al Conservatorio di San Pietro a Majella – dichiarato Conservatorio reale nel 1807, svolgeva opera di recupero sociale per i ragazzini più poveri, a cui veniva impartita una formazione musicale che li riscattasse dalla povertà. Nel tempo si sono formati qui numerosi artisti ed oggi ospita concerti di assoluto rilievo. Al suo interno vi è un bellissimo Museo con preziosi strumenti musicali (tra cui l’archetto di Stradivari), una chiesa e un convento. E poi il Duomo, la Cappella San Severo (quella del “Cristo velato” di Giuseppe Sanmartino), il Complesso di Santa Chiara, con il suo strabiliante chiostro maiolicato. Scorci, passaggi, scorciatoie tutti da scoprire.
Il Rione Sanità, zona decisamente folcloristica, sovrappopolata e fatiscente. Destinato inizialmente a necropoli, rimasto a lungo isolato, è meraviglioso nel suo genere: è qui che è nato Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, meglio noto come Totò. Tra le tante destinazioni, scegliamo il Museo di Capodimonte, con le sue meravigliose opere di Tiziano, Raffello, Michelangelo, Botticelli, Caravaggio, Parmigianino, un appartamento storico della prima metà dell’800, il salottino di porcellana con pareti interamente rivestite di porcellana e la sezione contemporanea con opere di Andy Warhol, Alberto Burri, Mario Merz; e il Cimitero alle Fontanelle della Sanità, suggestive grotte ricavate da cave di tufo, dove i napoletani praticano il culto delle “anime pezzentelle”, dei morti senza nome e di cui nessuno si cura, a cui il popolo dedica cure e preghiere. Il cimitero accoglie circa 40 mila resti di persone, vittime della grande peste del 1656 e del colera del 1836.
C’è poi il quartiere Chiaia, zona elegante e borghese. Da via Partenope o via Caracciolo inizia una meravigliosa passeggiata panoramica sul mare, delimitata dal Vesuvio in lontananza e dalla collina di Posillipo, con vista di Capri di fronte e il Castel dell’Ovo sul mare. Già, Castel dell’Ovo: il castello merita decisamente una visita, ed è molto consigliato ammirare il tramonto dalle terrazze poste in cima. Da qui si gode di una vista mozzafiato sul golfo. Ospita anche un piccolo Museo di etnopreistoria. Tra Piazza del Plebiscito, Piazza Municipio e via Toledo, menzione d’onore per il Teatro San Carlo, il teatro d’opera più antico d’Europa. Ha avuto come direttori Rossini e Donizetti e attualmente ospita i più importanti direttori d’orchestra ed étoile di ballo, grazie anche a una dotazione tra le più sofisticate e innovative. Inaugurato nel 1737 dal re Carlo di Borbone, il teatro era inserito in un programma mirato a dare a Napoli lo splendore di una capitale. La grande sala luccicante presenta sfarzosi innesti d’oro; la volta è decorata da Cammarano con Apollo che presenta a Minerva i grandi poeti greci, latini e italiani; il sipario con l’opera di Mancinelli “Le Muse e Omero tra poeti e musicisti” è del 1854.
Non possiamo non citare il Maschio Angioino: eretto a difesa della città dal 1279 sotto Carlo d’Angiò, ha avuto affreschi di Giotto come decorazioni delle pareti (in gran parte distrutti da un incendio) e ospitato una corte ricchissima con Petrarca e Boccaccio. Si accede attraverso il celebre arco di trionfo di Alfonso (il più importante ornamento del castello) che celebra le campagne militari di Alfonso di Aragona.
Il Vomero, invece, è una zona collinare, residenziale e borghese, da cui è possibile guardare dall’alto Castel Sant’Elmo e la Certosa di San Martino. È qui che sorge anche Villa Floridiana, un parco con splendida vista sul Golfo e Capri al cui interno è visitabile il Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina, con una collezione di Ceramiche di Capodimonte ed esemplari dall’estremo oriente.
Posillipo è il quartiere collinare affacciato sul mare: offre l’incantevole Area marina protetta “Parco sommerso di Gaiola” e la splendida Marechiaro. Qui giacciono i resti di Leopardi e Virgilio. Giacomo Leopardi morì a Napoli il 14 giugno 1837. La tomba attuale si trova salendo un vialetto a svolte ed è introdotta da arcate scavate nel tufo. La lapide, fatta apporre dall’amico Ranieri che salvò la salma dall’essere gettata nelle fosse comuni, ha sul basamento la lucerna, la civetta e il serpente, simboli dello studio, della sapienza e dell’eternità. La tomba di Virgilio si trova sullo stesso percorso della tomba di Leopardi, più in alto si arriva tramite una scaletta dopo la grotta romana. Esternamente vi sono alcune iscrizioni commemorative. L’antica tradizione che vuole qui sepolto Virgilio deriva dai lunghi trascorsi del poeta in città e dal suo desiderio manifesto di essere sepolto nella sua villa di Posillipo come nei suoi versi famosi: Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope, cecini pascua rura duces, ovvero “Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, e ora mi tiene Napoli; cantai i pascoli, le campagne, i condottieri”.
La zona Flegrea, sempre affacciata sul mare, offre attività termali e romantiche passeggiate panoramiche. Comprende diverse zone, tra cui Agnano, Pozzuoli, Baia, Bacoli, Cuma. Due suggerimenti (dei tanti possibili): la Riserva naturale degli Astroni e la Chiesa di San Gennaro. Il Cratere degli Astroni è il cratere meglio conservato dei Campi Flegrei, zona ricca di natura con specie in via di estinzione, ha tre colli e tre laghetti al suo interno con deboli attività solfatariche dal fondo. Nasce da uno dei vulcani spenti dell’area vulcanica dei Campi Flegrei, ha un’estensione di 250 ettari ed è gestita dal WWF. La Chiesa di San Gennaro, del 1580, è il luogo in cui fu decapitato San Gennaro, protettore della città di Napoli. Durante la decapitazione, il suo sangue ha macchiato una pietra, ora custodita in una delle cappelle della chiesa; in occasione della liquefazione del sangue di San Gennaro al Duomo di Napoli ogni 19 settembre, il sangue assume una colorazione viva e il popolo grida al miracolo.
Il Parco sommerso di Gaiola
Istituita con Decreto Interministeriale del 7/8/2002, l’Area marina protetta “Parco Sommerso di Gaiola” prende il nome dai due isolotti che sorgono a pochi metri di distanza dalla costa di Posillipo, zona nord-ovest del Golfo di Napoli. Con una superficie di appena 41,6 ettari, si estende dal pittoresco Borgo di Marechiaro alla suggestiva Baia di Trentaremi racchiudendo verso il largo parte del grande banco roccioso della Cavallara. Gestito dal Centro studi interdisciplinari Gaiola onlus, il “Parco Sommerso di Gaiola” deve la sua particolarità alla fusione tra aspetti vulcanologici, biologici e storico-archeologici, il tutto nella cornice di un paesaggio costiero profondamente suggestivo. I costoni rocciosi e le alte falesie di tufo giallo napoletano, rimodellate dal mare e dal vento, ammantate dai colori della macchia mediterranea, regalano ancora oggi scorci di rara bellezza che da sempre hanno incantato i popoli che qui si sono succeduti.
Proprio per la bellezza del paesaggio, a partire dal I sec a.C. su questa costa si insediarono sontuose ville dell’aristocrazia romana. La più importante fu la villa del Pausilypon (“luogo dove finiscono i dolori”) che, eretta da Publio Vedio Pollione e divenuta alla sua morte (15 a.C.) villa Imperiale, occupava gran parte della fascia costiera dell’attuale Parco. Resti di ville marittime, maestose cave di tufo, approdi, ninfei e peschiere sono oggi visibili lungo la costa sopra e sotto la superficie del mare, conseguenza del fenomeno vulcano-tettonico di lento sollevamento e abbassamento della crosta terreste denominato “bradisismo”.
La vita marina ha poi fatto il resto. L’estrema complessità geomorfologica dei fondali e la favorevole circolazione delle correnti marine ha permesso l’insediamento in pochi ettari di mare di una ricca e variegata comunità biologica che oggi riempie di vita e colori ciò che la storia della terra e quella dell’uomo hanno creato. Così mentre polpi, saraghi, donzelle e nuvole di “guarracini” si aggirano tra gorgonie e antiche vestigia, una murena resta in agguato proprio tra i mattoni consumati dal tempo di un antico murenario romano.
L'altra faccia di Napoli
L’esistenza di Napoli sotterranea è legata alla conformazione morfologica e geologica del territorio partenopeo, composto da roccia tufacea che ha caratteristiche di leggerezza, friabilità e stabilità del tutto particolari.
Le prime trasformazioni della morfologia del territorio, avvenute a opera dei Greci a partire dal 470 a.C., danno inizio alla crescita di quel mondo affascinante che è la Napoli sotterranea. Tali trasformazioni sono state dettate da esigenze di approvvigionamento idrico, che ha portato alla creazione di cisterne sotterranee adibite alla raccolta di acque piovane, e dalla necessità di recuperare materiale da costruzione per erigere gli edifici di Neapolis. Nei secoli successivi l’espansione della città portò alla realizzazione di un vero e proprio acquedotto che permetteva di raccogliere e distribuire acqua potabile attraverso una serie di cisterne collegate a una fitta rete di cunicoli.
Durante il dominio romano l’esistente acquedotto fu ampliato e perfezionato, ma con l’avvento degli Angioini, nel 1266, la città conobbe una grande espansione urbanistica cui, ovviamente corrispose un incremento dell’estrazione del tufo dal sottosuolo per costruire nuovi edifici, confermando una peculiarità di Napoli: quella di essere generata dalle proprie viscere, dove i palazzi sorgono immediatamente sopra la cava che ha fornito il materiale da costruzione.
A incidere in maniera determinante sulla sorte del sottosuolo napoletano intervennero, fra il 1588 e il 1615, alcuni editti che proibivano l’introduzione in città di materiali da costruzione, onde evitare l’espansione incontrollata di Napoli. I cittadini, per evitare sanzioni e soddisfare la necessità di ampliamento urbanistico, pensarono bene di estrarre il tufo sottostante la città, sfruttando i pozzi già esistenti, ampliando le cisterne destinate a contenere l’acqua potabile e ricavandone di nuove. Questo tipo di estrazione, che avveniva dall’alto verso il basso, richiedeva tecniche particolari al fine di garantire la stabilità del sottosuolo ed evitare crolli indesiderati.
Solo nel 1885, dopo una tremenda epidemia di colera, venne abbandonato l’uso del vecchio sistema di distribuzione idrica per adottare il nuovo acquedotto, che ancora è in funzione.
L’ultimo intervento sul sottosuolo risale alla Seconda Guerra Mondiale, quando per offrire rifugi sicuri alla popolazione si decise di adattare le strutture dell’antico acquedotto alle esigenze dei cittadini. Furono allestiti in tutta Napoli 369 ricoveri in grotta e 247 ricoveri anticrollo.
Finita la guerra, per la mancanza di mezzi di trasporto, quasi tutte le macerie furono scaricate nel sottosuolo, quasi a voler seppellire con esse anche tutti i ricordi di quel triste periodo. Fino alla fine degli anni ’60 non si è più parlato del sottosuolo, anche se molti continuavano ad utilizzare i pozzi come discariche.
Dal 1968, però, cominciarono a verificarsi alcuni dissesti dovuti essenzialmente a rotture di fogne o perdite del nuovo acquedotto: tali inconvenienti, che in tutte le città del mondo si evidenziano con rigurgiti di liquami in superficie o allagamenti, a Napoli invece, proprio per la presenza del vasto sottosuolo cavo, si palesano con grosse voragini. Dopo circa 20 anni di scavi e di bonifica, e grazie all’impegno silenzioso e al sacrificio di volontari che, dopo il lavoro, si calavano nelle viscere di Napoli per riportare alla luce un reperto storico di siffatta grandezza – un vero e proprio museo del sottosuolo – oggi è possibile conoscere una pagina inedita della storia di Napoli.
Nelle visite guidate nel sottosuolo, si va sotto i Quartieri Spagnoli, in vico S. Anna di Palazzo 52, dove i fratelli Michele e Salvatore Quaranta, i Caronte del 2000, hanno fondato la Libera Associazione Escursionisti Sottosuolo che si prefigge una maggiore conoscenza della città “inferiore”. Scendendo nelle cavità si potranno ammirare le vecchie cisterne dell’acquedotto del Carmignano e si potranno rivivere le sensazioni di chi vi si rifugiò durante la guerra.
Sulle mura sono graffite pagine di storia, nomi e caricature di personalità dell’epoca, costumi dell’epoca, soldati di varie nazioni, date, informazioni sui due sommergibili italiani – il Diaspro e il Topazio – che operarono durante la guerra, e ancora aerei e carri armati, nonché le esternazioni di chi, costretto a restare in quei luoghi per i bombardamenti, volle tramandare ai posteri le sue considerazioni.
Parco archeologico di Pompei
Dopo la catastrofe del 79 d.C. in cui il Vesuvio seppellì due intere città (Pompei ed Ercolano) e tutto il territorio dalle sue pendici occidentali e meridionali fino al mare, compresa la fertile piana del Sarno, l’imperatore Tito incaricò due magistrati di intervenire in favore della Campania e assegnò i beni di coloro che erano morti durante l’eruzione senza lasciare eredi alla ricostruzione delle città distrutte, come riferisce lo storico Svetonio, ma data la gravità della situazione si recuperò quanto possibile e i luoghi furono abbandonati.
Gli stessi pompeiani superstiti recuperarono una parte degli averi e delle suppellettili preziose dalle loro case, seguiti da generazioni di ladri che operarono nei secoli successivi, spesso eseguendo a casaccio cunicoli al di sotto dello strato di cenere consolidata, azioni segnalate spesso nei successivi giornali di scavo e di cui si notano ancora le tracce: le brecce in sequenza scavate nei muri degli ambienti depredati. L’area della città divenne una grande cava di materiali (marmi, blocchi di pietra, piombo), come dimostra l’asportazione del rivestimento marmoreo nelle Terme suburbane, nel Foro e in molte abitazioni, la scomparsa dei marmi e dei blocchi in pietra di parte dei sedili nei Teatri e nell’Anfiteatro e l’assenza delle vasche d’accumulo e delle tubature dell’impianto idrico sui torrini dell’acquedotto.
La collina della Civita, ricoperta dal materiale eruttivo da cui fuoriuscivano porzioni dei piani superiori degli edifici, divenne un sito disabitato dove tuttavia l’uomo ritornò per coltivare, utilizzando l’area come luogo di sepoltura. In alcuni casi le strutture emergenti furono riutilizzate per altri scopi, come attesta la costruzione di un forno in un ambiente voltato che si affaccia dal costone meridionale sulla piana o le strutture che vennero edificate sopra le Terme femminili del Foro. Anche all’esterno della città, lungo la viabilità ripristinata, vennero recuperati alcuni degli edifici sepolti. Il caso più significativo è quello delle terme in località Moregine, rinvenute durante la costruzione dell’autostrada Napoli-Salerno alla periferia meridionale di Pompei: l’edificio fu riutilizzato in parte con la sistemazione di un pavimento in lastre fittili poste sopra il banco di cenere dell’eruzione del 79 d.C., finché un’altra eruzione non lo seppellì di nuovo decretando il definitivo abbandono del complesso.
Alla fine del Cinquecento, per condurre l’acqua dai monti di Sarno ai suoi pastifici di Torre Annunziata, il conte Muzio Tuttavilla fece costruire dall’architetto Domenico Fontana un canale che attraversò l’intera collina della Civita, e dunque anche l’antica città, senza che venisse dato peso ai rinvenimenti di strutture, oggetti e iscrizioni durante lo scavo.
I tempi non erano ancora maturi e bisognerà attendere il 1748, anno in cui il re Carlo III di Borbone, dopo dieci anni di esplorazioni a Ercolano, decise di scavare sulla collina della Civita dove vi erano strutture affioranti. Gli scavi continuarono con fasi alterne sotto i suoi successori, durante il dominio francese, nella successiva fase di restaurazione borbonica e, dopo l’Unità d’Italia, continuano a cura dello Stato fino ai giorni nostri.
Il Lacryma Christi DOC
Tra le decine e decine di prodotti tipici e ricette tradizionali partenopee ci limitiamo a una ristretta selezione. Come sapete, in Italia è impossibile provare a essere esaustivi quando si parla di cibo. Il Lacryma Christi è un vino campano rientrante nella zona di produzione DOC Vesuvio. I vini del Vesuvio erano già famosi ai tempi dei romani per corpo e bontà (come ci racconta Marziale: Haec iuga quam Nysae colles plus Bacchus amavit, “Bacco amò queste colline più delle native colline di Nisa”. Esistono varie leggende sul nome del vino: una anonima credenza racconta che Dio, riconoscendo nel Golfo di Napoli un lembo di cielo strappato da Lucifero durante la caduta verso gl'inferi, pianse. Dove caddero le lacrime divine sorse la vite del Lacrima Christi. Un’altra versione narra invece di Cristo che, in visita a un eremita redento, prima del commiato trasformò la sua bevanda, ben poco gustosa, in vino eccellente. Sulla leggenda ritornò Curzio Malaparte che ne “La pelle”, invita a bere “questo sacro, antico vino”. Il Lacryma Christi veniva prodotto negli antichi tempi da certi monaci, il cui convento sorgeva sulle pendici del Vesuvio. Sembra che più tardi i Padri Gesuiti, padroni di vaste terre in quelle località, fossero quasi esclusivi produttori e detentori di questo prezioso vino. Per quanto siano radicate le tradizioni del Lacryma Christi, l’istituzione della DOC è solo del 1983.
Il babà
“Questo è un dolce che vuol vedere la persona in viso, cioè per riuscir bene richiede pazienza ed attenzione”, scriveva l’Artusi. Tecnica di impasto e tempi di lievitazione sono segreti. Si lascia lievitare a lungo in uno stampo a tronco di cono allungato, quindi cotto in forno ben caldo. Assume un colore ambrato e una caratteristica forma a “fungo”. Terminata la cottura viene estratto, e lo si fa asciugare per almeno un giorno affinché perda la maggior parte dell'umidità. Poi si immerge in ampi contenitori pieni di liquido caldo a scelta: sciroppo di zucchero, rum, limoncello. Qualcuno lo ricopre con con una glassa all'albicocca, che lo rende più lucido e attraente. Avrete capito. Stiamo parlando del babà.
Il babà è la derivazione di un dolce a lievitazione naturale originario della Polonia (babka ponczowa) e di altri paesi slavi. Perfezionato dai cuochi francesi assunse il nome di baba, trasformato in “babbà” dai pasticceri napoletani.
La sua origine? Non esiste una versione univoca, ovviamente. C’è chi fa risalire l’invenzione del babà al re polacco Stanislao Leszczyński, suocero di Luigi XV di Francia. Leszczyński amava cucinare, ma non aveva denti. Così non poteva gustare il suo amato gugelhupf perché troppo secco, finché un giorno decise allora di ammorbidirlo nel Tokaj e nello sciroppo.
Restando in tema, c’è anche chi dice che la ricetta del babà al rum nella tipica forma a fungo moderna risalga al 1835. Pare la si debba al celebre pasticciere Nicolas Stohrer, giunto a Parigi con Maria Leszczyńska, figlia del sovrano polacco, che aveva voluto portare con sé il suo pasticcere preferito in occasione delle proprie nozze con Luigi XV, re di Francia. Insomma, Polonia e Francia un ruolo pare ce l’abbiano avuto!
Ci sono anche versioni un po’ più crude, sempre riguardanti il re Stanislao. Alcuni sostengono che la forma ricorderebbe quella delle gonne a campana (tonde) delle donne anziane che si chiamano babka; altri che il re, dal pessimo carattere, avesse un giorno scagliato il dolce contro una credenza, fracassando una bottiglia di rum. Questa andò a inzuppare il dolce e Stanislao allora lo assaggiò, trovandolo ottimo.
Ascolta il podcast Robintur dedicato a Napoli.
Ottobre 2020
il mondo secondo robintur
Città che rimangono nel cuore, panorami indimenticabili, esperienze imperdibili: leggi e lasciati ispirare.